Intervista a JOSKO GRAVNER - TUORLO MAGAZINE

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La vita di Josko Gravner è stata attraversata da grandi cambiamenti, e quello del Giardino delle anfore sarà la frontiera più lontana dove Josko vuole spingersi, e cercare di attraversare.

Per chi non conosce questo contadino basterà sapere che forse lui, più di tutti, ha segnato la storia del mondo dell’enologia moderna.

Josko, agli esordi nel mondo del vino, con il fervore e l’ambizione tipici della sua giovane età, voleva fare il ragazzo moderno e senza pensarci due volte aveva venduto le enormi vecchie botti e le aveva sostituite con serbatoi di acciaio inossidabile termocondizionati e ogni altra diavoleria moderna che aveva potuto permettersi. Poi, una volta constatato che l’acciaio da solo non era sufficiente per creare vini complessi e pregiati e ne aveva provato “la loro indifferenza e la mancanza d’anima”, aveva anche investito in barrique di rovere francese nuove, una moda enologica che imperversava nell’Italia degli anni ’80. La produzione di Gravner, intanto, suscitava grande interesse, ed era sull’onda del successo: i suoi vini erano così richiesti da finire prestissimo, e veniva dichiarato ufficiosamente uno dei migliori produttori di vino bianco e rosso in Italia. Gravner sarebbe potuto rimanere Gravner.

Nel 1987 Josko vola in California e al suo rientro dice: “Ho imparato cosa non fare”. Trova vini tutti uguali, banali, massificati, e tutti troppo simili ai suoi. Disconosce i dogmi del vino fatto con il libretto delle istruzioni o giudicato da decadi fittizie di guide tutte uguali l’una dall’altra. Cerca l’acqua pulita: la troverà alla fonte. Invece di accontentarsi di questo straordinario successo, Gravner si sentiva come ad un punto morto. Quel giorno, Josko, incontra il buio, e non gli piace. Si ferma e torna indietro nel tempo, a quando non fare era l’unica sapienza. Cerca nel passato, risale il fiume fino alla fonte, dove l’acqua è pulita e i barbagli del sole sono abbaglianti. Il secondo viaggio lo fa nel Caucaso. Laggiù è nato il vino, ed è nato quando non si conosceva nulla ma si sapeva molto, cinquemila anni fa. L’uva appena spremuta tornava sotto terra, protetta, guardata ed educata dagli otri, che laggiù si chiamano kvevri: ancora terra, cotta alla fiamma. Laggiù l’abbraccio delle bucce durava a lungo, affinché nulla del frutto andasse perduto: ma con delicatezza e nel giusto tempo.

Josko trova una vecchia strada, che era la strada nuova. Basta vitigni internazionali, basta affinamenti in barrique, basta tecniche convenzionali e basta filtraggi. I vigneti vengono espiantati per lasciare il posto al bosco. Basta a Sauvignon, Pinot Grigio, Chardonnay, Riesling italico, Merlot e Cabernet Sauvignon. Josko sradica tutte le viti che aveva al confine tra Italia e Slovenia, di fronte alla casa dei nonni. Ora nessun controllo delle temperature, pratiche biodinamiche in campo, biodiversività nel vigneto con ripopolamento di microfauna e botaniche, uso esclusivo dello zolfo, nessuna diraspatrice, affinamento lento, infinito dal punto di vista commerciale, dodici mesi in anfora, da quattro anni in sù nelle botti e altrettanti in bottiglia. Il Bianco Breg 2012 è stata l’ultima annata, perché le uve con cui è stato fatto non esistono più. Le uve per il bianco saranno solo la Ribolla Gialla, lì da un millennio, come quella per il rosso solo Pignolo. Gli ci sono voluti trent’anni per capirlo: “Ho potuto chiedere scusa a mio padre troppo tardi. Non avevo capito quello che aveva cercato di insegnarmi. Non avevo capito”.

Scopri di più nel nostro racconto.
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