L’ultimo DIEZ ||| La storia di Juan Román RIQUELME

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#cronachedispogliatoio #riquelme

«Román es el único que conozco que tiene ojos en el culo»
(Alfio Basile)

La traduzione ve la risparmio, il concetto è decisamente chiaro... A parlare in questo modo di un genio del calcio argentino è un uomo che di questo movimento è stato un personaggio incredibilmente emblematico, un concentrato di tutte quelle cose che si trovano solo lì. E che ha sempre avuto la ferma convinzione che la numero Diez albiceleste potesse stare solo sulle sue spalle in quel lunghissimo interregno, in quella parentesi rimasta in sospeso dal momento in cui ha smesso di indossarla Diego Armando Maradona finché non è finita definitivamente sulla schiena di Leo Messi.

Alfio Basile è stato commissario tecnico della Nazionale in due momenti distinti: dal 1991 al 1994, alzando la Coppa America per due volte ma vivendo anche sulla propria pelle momenti che avrebbero steso un toro, come la sconfitta per 5-0 in casa contro la Colombia, che sembrava poter estromettere l’Argentina dalla corsa a Usa 1994; e poi la squalifica di Maradona proprio durante il Mondiale statunitense, torneo al quale la Selección si era arrampicata con le unghie eliminando l’Australia nello spareggio interzona. L’Argentina era arrivata negli Stati Uniti lanciando subito un segnale, quattro sberle alla Grecia e l’urlo allucinato di Diego davanti alla telecamera a terrorizzare l’Occidente calcistico. Una partita più tardi, però, Maradona era stato preso per la mano da un’infermiera, la Fifa si era tranquillizzata e l’Argentina si era sfaldata. Basile, dopo l’addio, era stato richiamato 12 anni più tardi, nel 2006, per raccogliere l’eredità di Pekerman, scottato dall’eliminazione contro la Germania ai quarti del Mondiale: l’AFA avrebbe voluto tenerlo in sella ma lui aveva deciso che poteva bastare così.

Il 13 ottobre 2007, all’Estadio Antonio Vespucio Liberti, che per tutti è più semplicemente il Monumental di Buenos Aires, el Coco Basile ha deciso di rischiare la sua stessa reputazione consegnando le chiavi del centrocampo argentino al suo pupillo, quello che definisce – semplicemente ma definitivamente – il “futbolista fundamental”. Il problema, è che non sta giocando da mesi, perché è in guerra con il Villarreal e non ha ancora avuto il via libera per tornare al Boca.... Ma quell’uomo è Juan Román Riquelme, che di soprannome fa el Mudo, e anche qui vi risparmio la traduzione perché è superflua: non parla quasi mai, ma lascia che a cantare siano i suoi piedi. Dopo 26 minuti della partita contro il Cile, che apre il lungo percorso di qualificazione che porta al Mondiale del 2010, c’è una punizione per l’Argentina. Maxi Rodriguez è vicino al pallone come Román, ma tutti sanno che non ha neanche una chance di calciare questo piazzato da una ventina di metri. Si crea, per qualche istante, un piccolo parapiglia tra la barriera cilena e quella aggiuntiva che si è piazzata lì davanti, con el Cuchu Cambiasso, Gabriel Heinze e Carlitos Tevez, che quel giorno è in coppia in attacco con il ventenne Lionel Messi, non ancora elevato al grado divino di numero dieci dell’Argentina.

Quello che esce dal piede destro di Riquelme non è un calcio di punizione. È una dichiarazione d’amore al calcio, alla quale Claudio Bravo non può rispondere: come si fa a fermare l’amore? Román corre con la mano destra che richiama il ruggito del Monumental. Corre e dimentica mesi in cui ha masticato amaro, corre in uno stadio che a livello di club gli è nemico, lui che si è manifestato al mondo come alfiere xeneize, ma che quel giorno è tutto con lui, con l’Argentina bene supremo, oltre qualsiasi ragionamento campanilistico. Corre per sentirsi ancora lui, ancora Román. Passano 20 minuti, stavolta il pallone è più spostato verso il centro. Sarebbe una punizione adatta a un mancino. Ma come lo fermi l’amore? Non lo fermi. Parte ancora Román, esplode ancora il Monumental che urla il nome di uno dei suoi nemici storici. Stavolta sembra davvero Diego nell’esultanza.

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