L’«Utopia» di Tommaso Moro

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Sir Thomas More (Tommaso Moro), cancelliere dello Scacchiere, sotto il re Enrico VIII, scrive quest’opera tra il 1515 e il 1516, in latino – un latino elegante, aulico – e la pubblica a Lovanio, nei Paesi Bassi nel 1516. Il titolo originale è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia, e viene presentata come un romanzo, basato sul racconto di un certo Raffaele Itlodeo e la sua casuale scoperta di un’isola ignota, che sarebbe stata fondata da un certo Utopo. In realtà con la parola “utopia” l’autore, che crea un neologismo fortunato, vuole indicare contemporaneamente un luogo non esistente (da ou=non) ma un luogo in cui si sta bene (da eu=bene). L’opera è divisa in due parti, la seconda delle quali, scritta per prima, è il romanzo utopico vero e proprio, in cui si vive in modo comunitario, o proto-comunistico; la prima parte, scritta successivamente alla seconda, è un’analisi assai critica della situazione politica e sociale dell’Inghilterra del tempo, delle pesanti disuguaglianze e ingiustizie sociali. In sostanza l’autore ci fa capire che l’utopia, ossia il disegno di una società perfetta e pacifica, nasce dalla insoddisfazione del presente. Tommaso Moro, peraltro, fu egli stesso vittima della ingiustizia, condannato a morte dal suo sovrano, di cui non volle sostenere le pretese di guidare una Chiesa d’Inghilterra, distaccata e in contrasto con la Chiesa di Roma.


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