Maria Valtorta – Quaderni 14 giugno 1944: Ora Santa di Gesù
«“Se non ti laverò non avrai parte nel mio Regno”.
Anima che amo, e voi tutti che amo, udite. Io sono che vi parlo, perché voglio passare con voi quest’ora.
Io, Gesù, non vi allontano dal mio altare anche se ad esso venite con l’anima lesa da piaghe e malattie o avvolta in liane di passioni che vi mortificano nella vostra libertà spirituale, dandovi legati in potere della carne e del suo re: Lucifero.
Io sono sempre Gesù, il Rabbi di Galilea, quello che i lebbrosi, i paralitici, i ciechi, gli ossessi, gli epilettici chiamavano a gran voce dicendo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me”. Io sono sempre Gesù, il Rabbi che tende la mano a colui che affoga e gli dice: “Perché dubiti di Me?”. Io sono sempre Gesù, il Rabbi che dice ai morti: “Alzati e vai. Lo voglio. Esci dal tuo sonno di morte, dal tuo sepolcro, e cammina” e vi rendo a chi vi ama.
E chi vi ama, o miei diletti? Chi vi ama di amore vero, non egoista, non mutabile? Chi vi ama di un amore non interessato, non avaro, ma unica sua mèta è quella di darvi ciò che per voi ha accumulato e dirvi: “Prendi. È tutto tuo. Tutto questo l’ho fatto per te, perché sia tuo e tu ne goda”? Chi? L’eterno Dio. Ed Io a Lui vi rendo. A Lui che vi ama.
Io non vi allontano dal mio altare. Perché quell’altare è la mia cattedra, è il mio trono, è la dimora del Medico che guarisce ogni male. Da qui Io vi insegno ad avere fede. Da qui, Re di Vita, vi dono la Vita. Da qui mi curvo sulle vostre malattie e le risano con l’alito del mio amore.
Faccio più ancora, o figli. Scendo da questo altare e vi vengo incontro. Eccomi che mi faccio alla soglia di queste mie case dove troppo pochi entrano e in meno ancora vi entrano con fede sicura. Eccomi che, figura di pace, mi affaccio sulle vostre vie dove passate accasciati, avvelenati, arsi dal dolore, dall’interesse, dall’odio. Ecco che vi tendo le mani perché vi vedo vacillare stanchi sotto il peso di macigni che vi siete imposti e che hanno preso il posto di quella croce che Io vi avevo data in mano perché vi fosse sostegno come lo è il bordone per il pellegrino. Ecco che vi dico: “Entra. Riposa. Bevi”, perché vi vedo esausti, assetati.
Ma voi non mi vedete. Mi passate accosto, mi urtate, talora per malanimo, talora per offuscamento di vista spirituale, mi guardate delle volte. Ma sapete di essere sozzi e non osate accostarvi al mio candore di Ostia divina. Ma questo Candore vi sa compatire. Conoscetemi, uomini, che di Me diffidate perché non mi conoscete.
Udite. Io ho voluto lasciare la Libertà e la Purezza che sono l’atmosfera del Cielo e scendere in questa vostra carcere, in quest’aria impura, per aiutarvi, perché vi amo. Più ancora ho fatto: mi sono privato della mia libertà di Dio e mi sono reso schiavo di una carne. Lo spirito di Dio chiuso in una carne, l’Infinità serrata in un pugno di muscoli e ossa, soggetta a sentire le voci di questa carne a cui è pena il freddo e il sole, la fame, la sete, la fatica. Tutto potevo ignorare. Ho voluto conoscere le torture dell’uomo decaduto dal suo trono di innocente per amarvi di più.
Non mi è bastato ancora. Ho voluto – poiché per compatire bisogna patire ciò che patisce chi si compatisce – ho voluto sentire l’assalto di tutti i sentimenti per sentire le vostre lotte, per capire quale astuta tirannide vi pone nel sangue Satana, per comprendere come è facile rimanere ipnotizzati dal Serpente se si abbassano un solo momento gli occhi sul suo sguardo fascinatore, dimenticando di vivere nella luce. Perché nella luce non vive il serpe. Va nei recessi ombrosi che paiono riposanti e sono unicamente insidiosi. Per voi queste ombre hanno nome: donna, denaro, potere, egoismo, senso, ambizione. Vi eclissano la Luce che è Dio. In mezzo ad esse è il Serpente: Satana. Pare un monile. È la corda per il vostro strangolamento. Ho voluto conoscere ciò perché vi amo.
Non mi è bastato ancora. A Me sarebbe bastato. Ma la Giustizia del Padre poteva dire alla sua Carne: “Tu hai trionfato dell’insidia. L’uomo-carne come Te, ora, non sa trionfare, e perciò sia punito perché Io non posso perdonare a chi è sozzo”. Ho preso su Me le vostre sozzure. Quelle passate, quelle del momento e quelle future. Tutte. Più di Giobbe, immerso in un letamaio putrido per fare velo alle sue piaghe, Io fui quando, sommerso dal peccato di tutto un mondo, non osavo neppur più alzare gli occhi a cercare il Cielo e gemevo sentendo pesare su Me il corruccio del Padre accumulato da secoli, cosciente delle colpe avvenire. Un diluvio di colpe sulla Terra, dalla sua alba alla sua notte. Un diluvio di maledizioni sul Colpevole. Sull’Ostia del Peccato.
O uomini! Più innocente di un pargolo che la madre bacia al ritorno dal suo battesimo Io ero. E di Me inorridì l’Altissimo perché ero il Peccato, avendo preso su Me tutto il peccato del mondo. Ho sudato di ribrezzo. Sangue ho sudato per il ribrezzo di questa lebbra su Me che ero l’Innocente....
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