La TRISTE storia di DERRICK ROSE ||| L'ELETTO fermato dagli INFORTUNI

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La TRISTE storia di DERRICK ROSE ||| L'ELETTO fermato dagli INFORTUNI

#derrickrose

«Stand on the right path». Nel breve discorso con cui Derrick Rose ringrazia tutti per avere ricevuto il premio di Mvp, nel maggio del 2011, c’è questo concetto che ricorre, che domina i suoi pensieri. Deve ancora compiere 23 anni e avrebbe tutto il diritto di sentirsi immortale. Nessuno si è mai aggiudicato questo ricevimento così giovane: ha appena scalzato dagli annali Wes Unseld, che nel 1969 era riuscito a imporsi contemporaneamente come rookie dell’anno e miglior giocatore della lega. Ma era un’altra pallacanestro, un’altra Nba, un altro mondo. Rose è appena diventato il simbolo dei Bulls tornati a spaventare la Lega, con un record di 62-20 che profuma di epoca jordaniana. Ovviamente è anche il primo giocatore di Chicago a vincere l’Mvp dopo Jordan e per il momento anche l’ultimo.
Ma Rose, con il suo volto serio e l’espressione perennemente concentrata, facile da confondere per tristezza, nel guardare al futuro pensa a un passato difficile, agli sforzi fatti per rimanere perennemente sulla giusta strada, per evitare di perdersi mentre tutti, intorno a lui, facevano rumore. È un concetto prezioso, che gli servirà nel corso di una carriera dai mille volti, stravolta dagli infortuni. Eppure, nonostante questo, mai uscita davvero dai radar dell’Nba che conta. Perché il faro che ha guidato la vita di D-Rose è sempre stato quello: stand on the right path. Con il lavoro e con la serietà. Questa è la storia di Derrick Martell Rose.

ENGLEWOOD, CHICAGO

Le speranze di vedere una stella nascere a Chicago, in principio furono riposte in Benji Wilson. Nato e cresciuto nella zona sud di Chicago, stella del Cole Park di Chatham, quindi trascinatore alla Siimium Vacation High School. Secondo molti, anzi, secondo tutti, in quel momento è semplicemente il miglior prospetto degli Stati Uniti. È un ragazzo tranquillo, innamorato della sua ragazza Jetun, ed è ambito da alcuni tra i migliori college d’America. Il 21 novembre 1984 commette l’errore di inciampare in William Moore mentre sta passeggiando con la fidanzata. Moore e il suo amico Omar Dixon, dopo un confronto acceso nato dal nulla, tirano fuori una pistola e sparano, colpendo Benji due volte. Una delle più grandi promesse della storia del basket statunitense muore così, senza un motivo, ammesso che esista poi un buon motivo per morire. Sulla lapide, l’epigrafe recita «Best in the nation».

Dopo di lui toccò a Ronnie Fields. Il più grande che fosse mai passato per i playground di Chicago, dicevano. A Farragut aveva incrociato la strada di Kevin Garnett ma la sua vita, prematuramente riempita dai lustrini che agenti e brand sanno proporre a ragazzi mentalmente non in grado di maneggiare una fortuna del genere, era cambiata di colpo il 26 febbraio del 1996, una settimana prima dei playoff cittadini: si era schiantato alla guida di un’auto, fratturandosi il collo. Da lì, a prescindere dai problemi fisici, il declino: un patteggiamento per abusi sessuali, il mancato ingresso al college, una vita trascorsa nelle leghe minori. Si era perso, come capita a tanti talenti costretti a vivere sul labile confine che divide un’esistenza tranquilla da una deriva problematica.

Infine Derrick Rose: come Wilson e Fields, Rose è «born and raised» a Chicago. Cresce con l’improbabile soprannome di Poohdini: un po’ Winnie the Pooh, dal suo colorito giallastro nei primi giorni di vita e dalla sua passione per i dolci, e un po’ Houdini, per la capacità di far sparire e riapparire il pallone spezzando i raddoppi delle difese che cercano invano di arginarlo a Murray Park, il playground di riferimento di Englewood, uno dei quartieri più malfamati della città del vento. La madre Brenda è la stella polare.

«Mia madre è stata la mia ispirazione, il mio modello. Era lei che lavorava, lei che pagava tutte le bollette. Ho sempre voluto diventare come lei»

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